DIANE ARBUS: She come to them

“Una fotografia è un segreto che parla di un segreto. Più essa racconta, meno è possibile conoscere”
Diane Arbus
Diane Nemerov Arbus  è stata una fotografa statunitense di origini russe.
Diane cresce in una famiglia agiata, così benestante da non risentire neppure della gravissima crisi del 1929,  in una realtà progressista e ovattata, protetta da tutto ciò che di inquietante riserva una città come New York.
A  14 anni conoscerà l’uomo che solo quattro anni dopo diventerà suo marito, Alan Arbus e insieme decideranno di fare i fotografi di moda visto che nel ’41 avevano avuto modo di farsi un po’ di esperienza nel campo: Alan occupava la posizione di fotografo ufficiale, e Diane inizialmente si limitava a fargli da assistente.
Lo studio comunque si chiamava “Diane & Allan Arbus”. La Arbus studierà fotografia brevemente con Berenice Abbott nel 1947, poi con Brodovitch, nel 1955. Infine con Lisette Model con cui studierà nel 1956 e nel ’57. In un’ intervista a Newsweek Diane racconterà così la sua amicizia con la Model: “Finché non studiai con Lisette sognavo di far fotografie, ma non le facevo davvero. Lisette mi disse che dovevo divertirmi nel farlo…”.
È proprio grazie all’esperienza con Lisette che Diane supererà la sua timidezza e troverà il coraggio di fotografare i soggetti che desidera, e abbandonerà così, pian piano, il lavoro in studio con suo marito.
Nel ’58 il matrimonio tra Diane e Allan iniziò ad andare in crisi.
Si separarono nel ’59, ma continueranno a lavorare insieme fino al ’69, anno in cui divorzieranno definitivamente.
Fu quando conobbe la Model che Diane iniziò ad abbandonare la moda, era sempre meno partecipe. Questo incontro fu il fulcro del cambiamento della sua vita e della sua fotografia. Lisette Model le aprì una finestra su realtà per lei completamente nuove, la inviterà a guardare un mondo diverso e a guardarlo con i propri occhi. Per Diane fu una rivelazione. Era come se tutto si fosse capovolto. Il suo obiettivo non riesce a distogliersi da quello da cui la gente generalmente allontana lo sguardo: il diverso, l’imbarazzante, lo sgradevole, il brutto.
La sua fotografia cambia radicalmente e non solo per i soggetti.
Abbandona la luce naturale e soffusa preferendo forti contrasti e luci ottenute anche con il flash. Diane abbandona la fotografia di studio e si immerge dentro New York, dal centro alla periferia, fotografando soprattutto nei luoghi pubblici più popolari: le spiagge di Coney Island, Central Park, Times square, l’Hubert’s Dime Museum e il Circo delle Pulci, le balere di Harlem e le parate in strada.
Sembra spinta da una nuova curiosità, da un nuovo modo di vedere ciò che l’aveva sempre circondata. Il contrasto tra il mondo ovattato nel quale era cresciuta e l’eccesso di cui la città è segno la colpisce profondamente. Iniziò a fotografare a partire dagli anni ’40, utilizzando una nikon 35 mm, ma solo grazie all’incoraggiamento della Model, supera la sua timidezza e inizia a fotografare i soggetti che davvero la interessano.
Le fotografie per cui la Arbus è oggi maggiormente conosciuta sono quelle che ritraggono gli esseri umani nella loro diversità, nello scostarsi dalla “normalità” data per scontata, una normalità a volte messa in discussione dalla stessa natura, a volte da scelte personali. Il suo approccio tuttavia non è mai voyeuristico, anzi, la consapevolezza della diversità non sminuiva i suoi soggetti, come sarebbe potuto avvenire facilmente. Nella maggior parte dei suoi ritratti i soggetti si trovano nel proprio ambiente, apparentemente a proprio agio; invece, è lo spettatore che è messo a disagio dall’accettazione del soggetto del proprio essere “freak”.
La fotografia della Arbus, altro non è che una strenua affermazione del proprio essere deforme, del proprio esistere, in quanto individuo, entità autonoma, al di là di ogni forma prestabilita e imposta.
È proprio la categoria del deforme, infatti – nella sua accezione etimologicamente neutra, e quindi sgombra da qualsiasi intento di giudizio – fu il campo prescelto da questa fotografa americana per cercarsi, e riconoscersi, nel mondo che la circondava. Dai più classici “fenomeni da baraccone” agli individui affetti da deformità fisiche o psichiche, o più semplicemente considerati dalla società dispregiativamente “diversi” per certi loro comportamenti e attitudini. Talvolta la deformità si fa più segreta, nascondendosi nelle pieghe ben stirate di una quotidianità borghese che si vorrebbe impeccabile. Ma, dice la Arbus: “c’è sempre una differenza tra quel che vogliamo si sappia di noi e quello che non possiamo evitare si sappia di noi; è la distanza tra l’intenzione e l’effetto”; è in queste foto che il senso di inquietudine si fa più forte, proprio quando la sensibilità della Arbus si infiltra in questo stretto spazio incontrollabile, svelando storture segrete in volti e corpi all’apparenza perfettamente normali.
L’opera di quest’artista, col suo allontanarsi da ogni schema precostituito, ha rappresentato un momento di profondo cambiamento tanto nei codici linguistici della fotografia, quanto nella percezione comune della realtà. Walker Evans, suo grande estimatore, vedrà in lei una specie di Diana “cacciatrice d’immagini”, e ne scriverà: “La sua originalità è nel suo occhio, spesso rivolto al grottesco e all’audace, un occhio coltivato per mostrarti la paura perfino in una manciata di polvere”.
Il linguaggio fotografico di Diane Arbus è l’espressione più radicale apparsa sulla scena della fotografia nell’ultimo mezzo secolo. La Arbus si spoglia di ogni spontaneismo, di qualsiasi immediatezza; la sua fotografia è diretta, sparata sul reale. I ritrattati sono piantati davanti alla fotocamera, presenti nel loro esistere e resi vivi dalla coscienza sociale del fotografo.
Nella poetica fotografica di Diane Arbus, quindi, ciò che risulta importante sono i tratti, i soggetti più che la composizione o la resa formale. Ella stessa ha detto: “La questione è che non si eludono i fatti, non si elude la realtà com’essa è veramente…È importante fare delle brutte fotografie. Sono le brutte che mostrano qualcosa di nuovo. Esse possono farvi conoscere qualcosa che non avevate visto, in una maniera che ve le farà riconoscere quando le rivedrete”.
La fotografia o ricopre il ruolo di simulacro che gli è stato assegnato dall’industria dell’apparenza, o incoraggia l’immaginario sociale a bruciare i propri miti. Si tratta di un invito alla diserzione dall’idolatria istituzionale e
l’ inizio della sovversione dei linguaggi multimediali.
Qui la fotografia si configura non come arte da esposizione ma interrogazione della comunicazione tra la cosa fotografata e il mondo che gli sta intorno.
La scena sulla quale la Arbus ritaglia la propria esistenza è
quella della rottura con il conforme e con la vocazione artistica.
La sua fotografia non è mai innocente.
Indica modelli e orientamenti, riflette le contraddizioni della società opulenta e della ragione armata. Pone la vita nel gioco degli opposti. Trasgredisce ogni linguaggio dell’avanguardia e della simulazione, si spinge oltre la crudeltà della rappresentazione per giungere a una festa degli oppressi dove nessuno è servo e tutti sono re.
Ogni suo scatto ha la capacità di entrare nell’animo dei soggetti, come del resto lei stessa rese palese quando affermò: “Quelli che nascono mostri sono l’aristocrazia del mondo dell’emarginazione… Quasi tutti attraversano la vita temendo le esperienze traumatiche. I mostri sono nati insieme al loro trauma. Hanno superato il loro esame nella vita, sono degli aristocratici. Io mi adatto alle cose malmesse. Non mi piace metter ordine alle cose. Se qualcosa non è a posto di fronte a me, io non la metto a posto. Mi metto a posto”.
La Arbus nel ’70 è ormai un mito fra i giovani fotografi, e lo stesso anno Art Forum pubblica le sue foto. È molto insolito per un mensile che di solito si occupa di arte astratta. Nel 1970 Diane inizia a fotografare dei disabili in un istituto. Come suo solito non si tratta di una sola sessione fotografica, ma vi tornerà diverse volte. È la serie che diventerà nota dopo la sua morte con il titolo di “Untitled”.
Poco dopo Arbus confiderà a Lisette Model di aver cambiato idea sui risultati ottenuti. Dice la Model: “Inizialmente ne era molto contenta, ma ora le sembrava di avere perso il controllo della situazione”. Fra gli ultimi soggetti della Arbus vi sono però anche le prostitute e i clienti di alcuni bordelli sadomaso. Di questi lavori sono noti solo pochi scatti.
Una grande anima la sua, dotata di una disarmante sensibilità. Non riuscirà a superare i problemi della sua vita, probabilmente accentuati dalla malattia che aveva, l’epilessia. Il matrimonio, la sua personalità difficile che la portava ad avere alti e bassi repentini non la lasciano tranquilla con se stessa, e la depressione di cui ha sempre sofferto prende il sopravvento. Pare aver perso l’interesse nella fotografia. Anche il crescente carico di responsabilità connesso al successo sembra contribuire a schiacciarla. Il 26 luglio 1971 si suicida ingerendo una forte dose di barbiturici e tagliandosi i polsi nella vasca da bagno.
La troveranno un paio di giorni dopo, con il corpo già in avanzato stato di decomposizione.
“Credo davvero che ci siano cose che nessuno riesce a vedere prima che vengano fotografate”
Arianna Oggioni
Cecilia Ripesi