DUANE MICHALS: Sequenza e narrazione

 

Duane Michals é un fotografo statunitense nato il 18 febbraio del 1932 a McKeesport, in Pennsylvania, luogo dove crescerà.

Nel 1953 si laureò presso l’Università di Denver. Nel 1956 andò a studiare alla Parsons School of Design, con l’intento di diventare un graphic designer, tuttavia non completò mai i suoi studi. Nel 1958 durante una vacanza in URSS scoprì un interesse per la fotografia.
Per un certo numero di anni, Michals ha lavorato nel campo della fotografia commerciale dove fu incaricato di eseguire le riprese di “The Great Gatsby” per Vogue nel 1947. Non avendo uno proprio studio, eseguì i ritratti commissionatigli alle persone nel loro ambiente quotidiano, entrando così in contrasto con il metodo di altri fotografi dell’epoca come Avedon e Irving Penn. Duane Michals è uno dei grandi fotografi che sperimenta la potenzialità della fotografia chiedendosi quali sono i suoi limiti.
Nell’Inghilterra degli anni ’60 nasce un movimento artistico che si fa chiamare “Art & Language” che cerca di indagare tali limiti utilizzando insieme arti visive e linguaggio. Con queste ricerche nasce il concettualismo, primo movimento artistico che invade le aree speculative che non sono proprie all’arte visiva che usa ampiamente la fotografia come strumento di rappresentazione, cosa che prima di allora non era mai capitato in quanto fino a questo momento la fotografia è stata tenuta ben lontana dall’arte in quanto considerata una tecnica. Sono dunque i fotografi di formazione che cercano per primi di analizzare il linguaggio della fotografia e il suo rapporto/ antitesi con la realtà, dimostrando che tutto ciò che si pensava fosse la fotografia non è valido sul piano intellettuale.
Uno dei primi fotografi a non credere nella possibilità di rappresentare la realtà in particolare attraverso la fotografia, ma in generale con qualsiasi mezzo di rappresentazione, è Duane Michals, il quale, pur iniziando la sua esperienza di fotografo, ritraendo soggetti classici, cerca quasi da subito di interessarsi ad aspetti che per l’epoca erano considerati secondari.
Inizia infatti a fotografare la gente per strada ritraendola in pose molto informali e su uno sfondo neutro, tutto il contrario dei ritratti in studio.
Questi ritratti, di una semplicità disarmante, riscuotono subito successo perché sono lontani dalla produzione corrente, ricercata e curata in tutto, luci e pose.
Gli interessi di Michals spaziano ben altro oltre la fotografia, egli infatti ama molto la pittura, soprattutto quella rinascimentale, ma in particolar modo quella surrealista: De Chirico, Balthus, Magritte sono i suoi pittori preferiti. Con i ritratti di Magritte inaugura un atteggiamento del tutto nuovo nel campo del ritratto, dove da sempre, pittori e fotografi sono interessati principalmente alla rappresentazione delle espressioni del volto, spesso con tendenza all’indagine psicologica, tendendo a raccogliere il più possibile il “carattere del sogno”.
Michals con i suoi ritratti dimostra che è impossibile rappresentare una persona attraverso la sola immagine visiva: egli infatti ai suoi ritratti aggiunge delle frasi scritte, oppure, compone brevi racconti fotografici utilizzando diverse immagini in sequenza. Con questi testi il fotografo ci guida alla comprensione di quel complesso di pensieri ed emozioni che sono intrappolati nell’apparenza, nell’unica immagine che il fotografo, nel passato pittore, ci propone di una persona. L’unione di testo e immagine ci porta a un’ immagine diversa, dove il testo racconta cose che l’immagine non può raccontare.
Michals dimostra così il fallimento della rappresentazione visiva che, come dimostra con le sue opere, non riesce da sola ad esprimere il mondo dell’immaginario servendosi della sola visione, dimostrando quindi che non esiste un mezzo espressivo autosufficiente per comunicare e ci dice che solo la combinazione di diversi mezzi espressivi riesce ad avvicinare lo spettatore alla comprensione intima delle cose.
Per descrivere questo atteggiamento, Michals si esprime così: “Non vado in strada a fotografare la vita. Non sono un reporter, non sono uno spettatore…Io sono ‘Io’. Le immagini che vedo nella mia immaginazione significano infinitamente tanto di più per me, piuttosto che gli avvenimenti casuali di cui potrei divenire testimone. Io sono i miei propri limiti. Qualsiasi avvenimento nella mia coscienza è materiale per le mie fotografie. Tutto ciò che si svolge intorno a noi è straordinario, ma noi usiamo le nostre energie per renderlo ordinario. I fotografi guardano troppo verso l’esterno e non mettono in discussione la meccanica della propria esperienza. Bisogna inventare fotografie che siano giudicate fallimenti, perché al meglio potrebbero effettivamente essere solo approssimazioni e ombre, come noi”.
Anche di fronte a immagini molto semplici dal punto di vista formale, Michals, con il testo, ci fornisce quanti più strumenti possibili per non lasciarci sospesi nel dubbio interpretativo ma nemmeno liberi di raggiungere significati che lì, volutamente, l’autore non ha suggerito, come ad esempio in “There are Things Here Not Seen in This Photograph”( Ci sono cose che in questa fotografia non si vedono), dice “in questa fotografia il testo mette in chiaro che molto spesso ci si ricorda l’evento che ci ha resi felici, qui il testo serve per ricordare anche il contesto psicologico di quel momento rappresentato dall’immagine”.
In una delle sequenze più famose “The Things are Queer” (le cose sono bizzarre), il gioco consiste in un continuo spostamento concettuale che parte dall’improbabilità dei rapporti dimensionali uomo/ oggetto per trasportarci da una supposta realtà in un territorio di finzione ed infine riportarci in una situazione realistica dove le cose sono rimesse al loro posto.
Con questa sequenza Michals ci dimostra che è impossibile fotografare la realtà e che la fotografia può portare a cattive interpretazioni delle intenzioni dell’autore a meno che non si ricorra all’uso di diverse modalità di espressione combinate. “La sequenza”, scrisse, “sono istanti. Ero insoddisfatto della singola immagine perché non la potevo piegare ad espressioni successive. La sequenza chiarisce la somma delle immagini, ciò che una singola non riesce ad esprimere. Non ha senso fare una sequenza, e quando non ha alcun senso, diventa un esercizio di pura abilità”.
Le situazioni misteriose che Michals inventa sono posate e artificiali, però sono così radicate nella vita urbana che abbiamo la sensazione di ricordare queste scene. La copresenza del fantastico con il quotidiano sono il cuore delle sue immagini. Dapprima fermati nel documento, i personaggi delle sue immagini diventano man mano non più individui, ma esponenti della collettività. Le situazioni e gli istanti decisivi di questo fotografo, gli avvenimenti che riflettono, sono una pre-illusione.
Mentre le immagini diventano più sofisticate, la tecnica rimane semplice. L’osservatore si trova senza scampo a confronto con ciò che è esposto nell’immagine. Molte scene si svolgono in un ambiente normale, ma esse assumono un nuovo significato perché ciò che accade, questi pseudo-avvenimenti, diventano la realtà. Le immagini dimostrano che noi reputiamo impossibile ciò che accade veramente. In tutte le sue espressioni, il motivo conduttore è l’esclamazione “devo dirti qualcosa”, quindi, il desiderio di comunicare è il mezzo, più importante e convincente è la fotografia in sé. In continuazione egli cerca di fotografare e immortalando ciò che non si era considerato fotografabile.
” Credo nell’invisibile. Non credo nel visibile. Non credo alla realtà finale delle cose intorno a noi. Per me la realtà è nell’intuizione e nella fantasia, e nella sottile voce nella mia testa che dice : “non è straordinario! Le cose nella nostra vita sono ombre della realtà, come noi stessi siamo ombre.  La maggior parte delle fotografie concernono l’evidente. Essi credono e accettano ciò che gli occhi dicono loro e gli occhi non sanno niente. Il problema è: smettere di credere a ciò a cui noi tutti crediamo, che la realtà è qui per essere fotografata e documentata, e quindi iniziare ad osservare  il nostro intimo come forma, come fonte primaria di esperienza fotografica. Per far ciò, bisogna essere pronti a mettere se stessi in discussione…com’è tremendo sapere quale sarà la nostra prossima fotografia!” Ed  egli filosofeggia ancora: “Ho una forte sensazione della mia vita come evento o dramma della vita che terminerà. E così certamente come siedo qui e scrivo, io so che un giorno non sarò più qui. Tutto continuerà, ma io non ci sarò. Come è strano. Credo che questa mia coscienza dell’esistere, la verità della mia esperienza sia cresciuta a oggetto della curiosità per esplorazioni fotografiche. Come è bello e triste tutto ciò”.
I contenuti di Michals sono dunque di natura privata, poiché Michals si è impegnato a tracciare la mappa dei suoi sentimenti intimi, il suo atteggiamento artistico è necessariamente di confessione spontanea, e scrive: “i migliori artisti regalano se stessi attraverso il loro lavoro”.
Già oggi Michals può essere annoverato fra gli innovatori della fotografia moderna. Però più importante appare l’impulso umanistico con il quale ha sviluppato il suo lavoro fotografico, alla ricerca di se stesso e degli altri.
“Che follia la mia di credere che sarebbe stato così facile. Avevo confuso l’apparenza degli alberi con le automobili, e la gente con la realtà in se stessa ed avevo creduto che la fotografia di queste apparenze sarebbe stata la fotografia di esse. E’ una malinconica verità che non sarò mai capace di fotografare e che posso soltanto fallire. Io sono un riflesso che fotografa altri riflessi dentro un riflesso. Fotografare la realtà è fotografare il nulla.”
Arianna Oggioni
Cecilia Ripesi