FRANCESCA WOODMAN: La geometria del tempo

“Ho dei parametri e la mia vita a questo punto è paragonabile ai sedimenti di una vecchia tazza da caffè e vorrei piuttosto morire giovane, preservando ciò che è stato fatto, anziché cancellare confusamente tutte queste cose delicate.”
Francesca Woodman

 

 

Francesca Woodman fu la fotografa americana più importante negli ultimi decenni del XX secolo. Nata nel 1957, pose fine ai suoi giorni il 19 gennaio del 1981. Aveva 23 anni e la paura di invecchiare, il terrore di essere se stessa: l’angoscia era un fardello troppo grande per la sua solitudine, la crisi artistica e generazionale una montagna insormontabile.
Appariva in molte delle proprie fotografie e il suo lavoro si concentrava soprattutto sul suo corpo e su ciò che lo circondava, riuscendo spesso a fonderli insieme con abilità. La Woodman usava in gran parte esposizioni lunghe o la doppia esposizione, in modo da poter partecipare attivamente all’impressionamento della pellicola.
La Woodman esemplifica una metafora ricorrente nella fotografia femminile, quella degli autoritratti messi in scena, che, anche quando non prendono a modello il proprio “sé”, possono comunque essere considerati autoritratti.
Il terreno in cui ci avventuriamo tuttavia è un po’ insidioso. Non sono solo le donne a scattare autoritratti, non sono solo le donne a realizzare immagini cosiddette diaristiche. Gli autoritratti sono strumento di riflessione sul proprio sé. Ciononostante, come nel caso della Woodman, i critici fanno presto a etichettare quelle opere come fotografia “femminile”, e non ha aiutato nemmeno il fatto che alcune delle prime interpretazioni delle sue fotografie fossero di stampo femminista, il che è naturale, visto che realizzò gran parte della sua opera in un’epoca nella quale la questione dell’identità e della rappresentazione in genere era al centro delle preoccupazioni di tanti artisti. Eppure l’opera della Woodman non è prettamente femminista, nel senso che non era politica nei suoi intenti, ma più che altro formale e psicologica nella formulazione. Se le sue fotografie affrontano in tutto e per tutto la questione del suo stare al mondo e del suo essere donna nel mondo – come indubbiamente fanno- allora una lettura femminista è perfettamente plausibile, al di la del fatto che lei fosse una femminista convinta o meno.
Ma ci sono letture altrettanto valide. Uno degli aspetti affascinanti della poetica della Woodman è la sua indeterminatezza, il suo mistero. L’osservatore – uomo o donna che sia – mette sempre se stesso nella fotografia che guarda, ma il linguaggio visivo della Woodman si presta particolarmente a stimolare tutta una moltitudine di interpretazioni possibili. La fotografia lavora molto con gli specchi e molte sue opere si basano sul fenomeno del riflesso e della sparizione: impossibile che lo sguardo non ne venga attirato. Per quanto la Woodman tracci uno “spazio privato”, anche la sua conoscenza, che traspare chiaramente nei tanti rimandi alla storia dell’arte, la sua capacità di seduzione, la sua disinvolta manipolazione degli effetti “fumo e specchi”, rendono pubblico quello spazio. Anche se la Woodman non volle mai esporre le sue fotografie, anche se le sue immagini contengono riferimenti tutti privati, molto del suo “linguaggio” potrebbe essere condiviso con i suoi osservatori per instaurare un dialogo pubblico.
I temi che sottendono la sua opera artistica sono tanto ampi e vari quanto quelli di qualsiasi fotografo, ma la Woodman rappresenta un vero giardino delle delizie per i critici, e le sue opere sono un’ ambigua tela sulla quale riversare liberamente le teorie che preferiscono.
C’è un’interpretazione sulla quale la prudenza sarebbe d’obbligo ed è quella che potrebbe essere definita una lettura psicologica o psicoanalitica. Quando un artista si suicida, specialmente da giovane, i critici possono essere molto tentati di analizzare la sua opera a posteriori e di “prevederne” la morte, o di leggere avventatamente una sorta di infelicità nelle sue immagini. Questo può essere pericoloso e profondamente sbagliato. Avvisaglie del suicidio dell’ artista non sono presenti nelle sue fotografie, o comunque non necessariamente. L’opera di un artista non è la sua vita, ma il suo lavoro. Arte e vita sono legate, è ovvio, ma il legame non è sempre diretto. Piuttosto, quella sua tendenza polimorfa, malinconica e trasfigurativa, potrebbe essere una chiara conseguenza del suo interesse verso il surrealismo.
C’è però una caratteristica della sua opera sulla quale tutta la critica sembra essere d’accordo, ed è la deliberata sfuggevolezza delle sue immagini: l’artista si fotografava in modo ossessivo.
Una volta Francesca spiegò, forse con un pizzico di ironia o forse di pragmatismo, che si fotografava per “una questione pratica, […] mi fotografo perché sono sempre disponibile”. Nessuna impertinenza, ma semplicemente una motivazione pragmatica.
L’altra motivazione, più complessa, per quanto rientri sempre nei confini del pragmatismo, è che in un autoritratto ci si può chiedere di fare le cose più incredibili che, in tutta coscienza, si preferisce non domandare agli altri. Tuttavia, una motivazione molto più probabile per fotografarsi- filosofica, estetica, psicologica – è quella di voler dire qualcosa di se stessi. Per parafrasare Cartesio: “Io fotografo, dunque sono”.
Anche su questo la critica è d’accordo: Woodman scattava fotografie per analizzare, o forse per affermare la propria identità: il punto di divergenza è quale “indentità” o quali “identità” la fotografa stesse esplorando. In altre parole, è la natura esatta dell’identità della Woodman a essere in gioco: non c’è un anello decodificatore per la sua arte.
Quando si parla dell’identità della Woodman, si parla di un’identità artistica, un’ imagista: nelle sue immagini metteva a nudo la sua anima, se stessa.

L’arte tutta, è confessione, in una misura o nell’altra, non tanto una confessione vomitata sul letto dell’analista, quanto una confessione immaginativa della ricreazione, l’atto creativo di fare arte, di distillare una sintesi creativa dai materiali che l’artista ha a portata di mano, siano essi fisici o mentali. Poco importa quanto si avvicini alla realtà, o alla “verità”: tutta l’arte è una finzione.
Lo spazio e il tempo nelle sue fotografie, per quanto distinti,  conferiscono all’opera fotografica della Woodman  una notevole omogeneità. Le sue immagini coerenti, singolari, e uniformi, non mancano certo di varietà. Erano varie e sperimentali, ma sapientemente arrangiate da una personalità artistica d’eccezione. La cosa più importante è che lo spazio veniva delimitato dai bordi della cornice della fotografia, in genere il formato 6×6, che lei prediligeva. Era questo il vero spazio in cui calava i suoi soggetti, delimitati da un quadrato, i limiti del negativo, che rappresentano i confini del mondo che ha conquistato, tutto quello che c’era all’interno di quel campo visivo, e all’interno di quel confine.
E poi, una volta insinuatasi in quello spazio che è una gabbia, uno spazio di reclusione, lei – preda di se stessa – cosa faceva? Spesso combatteva contro la sua stessa reclusione, cercava di fuggire dai confini che la circondavano. Molto spesso non si vede nemmeno: parte del suo corpo è nello spazio, parte non lo è, mentre si libera dalla trappola che ha teso per se stessa. Quando non stava fuggendo dallo spazio della fotografia, quando non ne stava uscendo, ne veniva inglobata, ne diventava parte integrante, ricoprendosi di carta da parati, diventando lei stessa carta da parati, o fondendosi in un oggetto o in uno scaffale.
Lei ce l’aveva una via d’uscita, quantomeno attraverso le sue immagini, c’era sempre una via d’uscita, un gioco di prestigio che trasformava spazio e stato d’animo. Era un’artista seria, ma anche giocosa, strettamente legata al suo desiderio di abitare l’inquadratura e al tempo stesso di fuggirne.
L’elemento tempo, è un’ altra forte componente della sua opera: i suoi giochi con le lunghe esposizioni, per sfocare, alterare e distorcere il proprio sé fotografato. Spesso la Woodman si sfoca il volto per rendersi irriconoscibile, oppure sfocava l’estremità del corpo con l’effetto di frammentarlo o di smaterializzarlo. E’ uno degli aspetti più affascinanti del suo lavoro che solleva fra l’altro molte domande. Perché questa evidente ossessione per l’effimero, per quelle comparse nelle proprie immagini e allo stesso tempo per quelle sparizioni? Woodman incuriosisce e al contempo inquieta i critici perché proprio quando sembra sul punto di rivelare se stessa, si nega. I suoi tempi di esposizione e le sue immagini sfocate sembrano parlare di transizione, in senso fisico e psicologico; fluidità e indeterminatezza sono le due parole chiave. Si legge una profonda tendenza malinconica nel suo lavoro, quasi un “memento mori”. Come diceva Susan Sontag, “Ogni fotografia è un memento mori. Fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità di un altra persona (o di un’altra cosa)”.
La sua forza sta proprio nella sua indeterminatezza, nella mutevolezza delle sue prospettive e dei suoi stati d’animo, nel suo interesse per l’identità.
Sappiamo che soffriva di depressione e così le sue immagini sono intrise delle sue paure e dei suoi desideri. Ma alla fine la sua opera, come quella di qualsiasi artista degno di nota, specialmente un artista fotografo, parla del suo posto nel mondo. Mettere una macchina fotografica fra se e il mondo, anche quando si guarda allo specchio, è sicuramente un gesto di autodistanziamento, come giocare a fare Dio per qualche istante.
Forse aveva detto davvero tutto nelle sue fotografie in bianco e nero : vi aveva impresso tutto ciò che sentiva, conferendo quelle atmosfere suggestive ad ambienti spogli e squallidi, avvolgendoli di un’emozione estetica che scavava dentro di lei, che mostrava al mondo com’era fatta dentro quel corpo che talora ostentava e talora celava. Nelle fotografie raffigurava i suoi incubi e le sue paure, gli spettri che la inseguivano. Attraverso l’arte credeva di avere trovato la via d’uscita. È per questo motivo che la Woodman fotografava se stessa: erano le sue sensazioni, le sue esperienze, le sue emozioni interiori che comunicava, erano la solitudine, il terrore di scomparire, di essere abbandonata che voleva rendere noti. La nudità esibita era un altro mezzo per segnalare quella sua impotenza davanti al mondo, davanti a una società che macina ogni cosa velocemente.
La si direbbe un’adolescente felice, forse un po’ troppo sensibile. Rientrata negli Stati Uniti, dà alle stampe il suo primo e ultimo libro, “Some disordered interior geometries”, uno di sei quaderni dove si racconta con iscrizioni, collage di autoritratti, didascalie-dichiarazioni.

In quei fogli c’è un buco nero, ma non se ne accorge nessuno.

Pochi giorni dopo si toglie la vita.

 

 

Arianna Oggioni

Cecilia Ripesi