L’immagine rivelata #pilloledistoria

La nebbia che avvolge gli albori della fotografia è di gran lunga meno fitta di quella che circonda le origini della stampa di libri. Uomini che, indipendentemente l’uno dall’altro, tendevano verso il medesimo obiettivo: fissare le immagini della camera oscura, che si conoscevano almeno sin dai tempi di Leonardo.

Nièpce e Daguerre vi riuscirono contemporaneamente.

Le fotografie di Daguerre erano lastre d’argento sensibilizzate ai vapori di iodio ed esposte alla luce nella camera oscura, che dovevano essere girate più volte finché, una giusta illuminazione, vi si poteva distinguere un’immagine dai morbidi toni grigi. Erano pezzi unici. Non era quindi raro che venissero custodite dentro astucci, Come dei gioielli. Nelle mani di alcuni pittori, si trasformavano invece in ausili tecnici.
Ma quadri, se durano, Durano solo come testimonianza dell’arte di chi li ha dipinti. Nel caso della fotografia, invece, ci si imbatte qualcosa di nuovo e singolare: rimane qualcosa che non si riduce alla testimonianza dell’arte del fotografo, Qualcosa che non è possibile far tacere e reclama a gran voce il nome di colei che l’ha vissuto, che qui è ancora reale e che mai potrà ridursi tutta nell’arte.
Non a caso Barthes, con il suo Noema della fotografia “È stato qui“ indicherà la valenza simbolica dello strumento che permette di registrare un’immagine ma oltre a questo, ce la fa sentire presente, Quella persona fotografata. È già passato ma è ancora eterno. Ecco da dove ricavano tutta quella potenza referenziale gli album di famiglia. I nostri amici, amanti, parenti sono stati impressionati eternamente su un pezzo di carta che possiamo portare con noi. E non ci sembrerà di girare con un supporto bidimensionale ma piuttosto con i nostri affetti. La natura che parla all’apparecchio fotografico è diversa infatti da quella che parla all’occhio; diversa soprattutto perché, al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall’uomo, ne compare uno elaborato inconsciamente conto.
Inizialmente non si aveva il coraggio di guardare a lungo le prime fotografie che Daguerre realizzava. Ci si ritraeva di fronte alla nitidezza dei soggetti e si credeva che i piccoli, minuscoli volti delle persone che stavano nella fotografia potessero a loro volta vedere noi, tanto stupefacente era l’impressione che tutti ricevevano dalla nitidezza inconsueta e dalla inconsueta veridicità dei primi dagherrotipi.
Era l’epoca in cui si cominciavano a riempire gli album di fotografie. Li si incontrava di preferenza nei punti più freddi della casa o nei salotti: grossi volumi rilegati in pelle con guarnizioni in metallo e i fogli spessi un dito bordati d’oro, dove erano disposte in bell’ordine figure rigide e grottesche. L’ambientazione di questi ritratti, Con i loro piedistalli, le balaustre e tavolinetti ovali, riporta agli anni in cui i lunghi tempi di posa rendevano necessario fornire ai soggetti degli appoggi che li aiutassero a rimanere fermi. Nacquero allora quegli atelier con palme e drappeggi, arazzi e cavalletti. Il procedimento stesso induceva i soggetti a vivere non fuori, ma dentro il momento: nella lunga durata della posa essi crescevano, per così dire, nell’immagine, perché in netto contrasto con l’istantanea.
Arianna Oggioni e Cecilia Ripesi