Il mare, il silenzio, la sospensione: tre temi che tornano nelle fotografie di Tom Sandberg (Narvik, contea di Nordland 1953-Oslo 2014), esposte al Foro Boario di Modena in occasione della prima mostra italiana dedicata al fotografo norvegese. Curata da Sune Nordgren e Filippo Maggia, Tom Sandberg. “Around Myself” fino al 10 gennaio 2016
Nel corso di una carriera più che trentennale, Tom Sandberg ha lavorato soprattutto con la tecnica del bianco e nero, prediligendo medio e grande formato e dando vita ad un corpus di opere rilevante. I lavori esposti a Modena sono pervasi da un’inquietudine tipicamente nordica: visioni che divengono riflessioni aperte sulla vita e sulle sue infinite sfumature (sottolineate da una superba stampa), in taluni casi vere e proprie allucinazioni che richiamano gli incubi di Munch, nelle quali la presenza umana diviene una proiezione di sé, tanto incerta quanto definitiva.
C’è anche il ritmo delle nuvole, negli scatti di Sandberg , uno squarcio di luce, la sagoma dell’aereo tra cielo e terra, la curva di un tunnel. Quanto ai ritratti, nessuno mostra il volto. «Sospensione in termine di tensione, ha precisato Sune Nordgren che conosceva il fotografo fin dagli anni 70 , Quanto all’acqua, sì certo, c’è tanta acqua, ma questa è la Scandinavia». Anche il silenzio appartiene al mondo interiore del fotografo, riservato e solitario. Il bianco e nero è il linguaggio adottato: era solito stampare da sé le fotografie in camera oscura, magari ascoltando musica così ad alto volume che non si riusciva a parlare. Per le stampe molto grandi (oltre i tre metri), invece, si rivolgeva ai laboratori di Parigi e Oslo. Quanto ai soggetti non hanno nulla di straordinario: momenti, situazioni, oggetti della quotidianità che si cristallizzano nella dimensione temporale, investiti di un’impercettibile ambiguità che pure appartiene al codice linguistico del bianco e nero. «Fotografava un sacchetto di carta marrone vuoto che non conteneva nulla, di quelli che butti via qualche secondo dopo aver mangiato il tuo sandwich, e questo diventava improvvisamente un buco nero. Qualcosa di molto misterioso che poteva contenere una bomba o magari un biscotto , ha spiegato il curatore , lui non ha mai pensato in termini drammatici: nei suoi scatti non c’è nulla di sessuale o politico, non c’è la morte o il sangue, solo la vita ordinaria che lo circondava».
In mostra, una delle immagini che colpisce di più, inevitabilmente associata alla foto del bambino siriano senza vita sulla spiaggia di Bodrum, è Untitled (1996), il ritratto della figlia Marie addormentata a faccia in giù sotto sulla sabbia lambita dal mare, sotto il sole del Nord. «È lei anche la bambina con i codini fotografata di spalle. Trovo che sia affascinante cercare di capire quale potesse essere la sua idea nel fotografare sua figlia in quel modo. Normalmente li riprendiamo quando giocano o a Natale, ma lui ha ritratto Marie così, con una prospettiva in cui la testa della bambina è così grande che evoca qualcosa di molto fragile».
“Da quando era un ragazzino fino a quando è morto per un tumore, nel 2014, non ha fatto altro che fotografare. Immortalò John Cage, Christo, Gilbert & George, Harald Sæverud e tanti altri, tra cui i designer Alberto Alessi, Bruno Danese, Ernesto Gismondi tra i protagonisti del libro Design in Italia. Dietro le quinte dell’industria (2008) di Stefano Casciani. Aveva sempre con sé la macchina fotografica 35 mm — non ha mai usato né Hasselblad, né banco ottico — che lo costringeva ad avvicinarsi moltissimo al soggetto.”