MARIO GIACOMELLI

Mario Giacomelli nasce a Senigallia il 1 agosto del 1925 e morirà il 25 novembre del 2000. È stato un tipografo, fotografo, poeta pittore italiano.
Giacomelli lavorò per tutta la vita nella “Tipografia Marchigiana” e si dedicò alla fotografia, e in gioventù anche alla pittura e alla poesia, soltanto nel tempo libero e tutti i giorni dopo cena, fotografando inizialmente i dintorni di Senigallia, dove visse, quindi stampando provini a contatto. Dal provino, con una lente, individuava il punto interessante e lo andava ad ingrandire, poi stampava un 30×40 cm. Le sue immagini sono molto importanti per tutta la storia della fotografia. Dopo il 1955, ma soprattutto dopo che il MOMA di New York acquistò la serie “Scanno”, nel 1963, acquisì grande fama in Italia e all’estero.
Con la macchina fotografica realizzerà serie memorabili e cercherà di tradurre in sequenze le poesie degli autori tanto amati. E soprattutto, con la macchina fotografica continuerà a osservare e riprendere il suo paesaggio.
Se infatti gli altri temi percorrono la sua vita, la visitano, la riempiono e poi l’abbandonano; se, in pratica.
Giacomelli lavora normalmente per serie complete e composite, a volte rigidamente numerate in gruppi ragionati, altre in un accumularsi quasi disordinato di immagini, il paesaggio sarà invece un tema ricorrente a cui l’autore non smetterà di sottrarsi in cerca sempre di nuovi modi per vedere quel che già conosce, per tornare in luoghi e scorci già noti, cercando di coglierne l’essenza.
Non è mai una natura incolta ma un territorio dove il segno del’ uomo è preciso ed evidente, impresso addirittura con solchi e cicatrici profonde nella trama della terra, come traccia di un duro lavoro svolto, di una fatica di anni dell’uomo per arare, e della terra per ricevere quelle ferite. Sono, soprattutto, la testimonianza di una memoria viva che si sedimenta sul corpo della terra e la trasforma irrimediabilmente in qualcosa d’altro: in un’ armonia di patterns che si ripetono, in un grido lacerante che riecheggia, in una simbologia profonda. In una parola, in un ritmo di linee dalle continue possibili variazioni.
La visione dall’alto è il punto di ripresa preferito da Giacomelli per queste immagini, non per una necessità descrittiva ma per cogliere l’essenza di quello che fotografa. È una distanza fisica, che conduce fuori da ogni distrazione la presa di coscienza di un territorio che, a saperlo guardare, racconta la storia degli uomini che lo hanno abitato e tra questi la storia dello stesso Giacomelli. Lo sguardo esterno, fisicamente lontano, ma penetrante diventa allora invenzione, creazione di uno spazio che sentiamo denso di echi profondi e intimi. Poi in camera oscura, nelle tante notti che Giacomelli trascorre a stampare e ristampare le sue foto, questa presa di coscienza si completa e prende definitivamente corpo. Il nero diventa assoluto, il bianco abbagliante. Non c’è scampo nè indulgenza per nessuna zona grigia; soltanto un contrasto acceso, a volte estenuante, drammatico. La mappatura dello spazio di Giacomelli è fatta di solo bianco e nero e di incredibili, inusitate armonie che sembrano germinare dalla carta fotografica come improvvisi e drammatici atti poetici.
Da subito, il paesaggio diventa altro, terra concreta e insieme traccia dell’uomo, memoria intima e universale. Campo da lavorare, certamente, ma anche ricordo di un passato che non torna e preludio di una morte possibile. Un paesaggio, in pratica, che può mostrare segni di una fisionomica dei sentimenti, profondamente umana.
Le rughe del viso della mamma ritratta in una sua celebre fotografia, conservano la memoria di una vita intera; le linee della mano testimoniano il lavoro e la fatica dell’uomo. Questi segni sono lì, nei suoi paesaggi, impressi come residui della vita vissuta, di un legame antico e profondo. Sono tatuaggi che incidono a fuoco la terra. La raccontano, la ricordano. Soprattutto saldano, in un’ unica immagine, il corpo dell’uomo con quello del mondo.
Mario Giacomelli non aveva mani che accarezzassero il suo volto, ma aveva occhi che sapevano raccontare, e sapeva riconoscere la guerra in tempi di pace, i segni, le ferite, le cicatrici della campagna e del mondo, la vita dal basso, schiacciata, senza colore, senza cielo.
A Giacomelli non interessava la foto singola, ma la serie, il racconto. “Ciò che conta è quello che nasce nella mia mente”. E lui fotografa la scomparsa, le sue paure, le sue ossessioni, mascherandole dietro le serie. “La fotografia mi ha aiutato a scoprire le cose, a interpretarle e rivelarle. Racconto la conoscenza del mondo, in una architettura interiore dove le vibrazioni sono un continuo fluire di attimi, di avventure liberanti come espressione totale dove sento tutta la completezza della mia esistenza”. Insieme poeta e filosofo, Giacomelli impara dalla guerra l’importanza del quotidiano; nasce una nuova fotografia, lontana dagli atelier, libera e spontanea. Utilizzando lunghi processi tipografici, presto comincia a liberare i suoi lavori da ogni traccia di materia, alla ricerca del significato autentico delle cose.
Rinunciando all’estetica Giacomelli presentò nelle sue immagini il frutto del suo spirito, la rappresentazione intima delle sue sensazioni ed emozioni. La sua fotografia si spoglia del suo essere documentazione. Le figure cessano di essere persone diventando fantasmi. Sembrano aggirarsi lentamente in un ambiente surreale, sembrano vivere in una realtà che non è realtà ma costruzione mentale dell’io del fotografo.
Ha rappresentato un intimo inno alla solitudine esistenziale.
Arianna Oggioni
Cecilia Ripesi