Lo specchio vuoto – fotografia, identità e memoria

Riflessioni sul saggio di Ferdinando Scianna

Appena proponi a qualcuno di fargli un ritratto, quasi tutti mettono subito le mani avanti con una civetteria che mal nasconde una certa angoscia: “guardi che io vengo malissimo in fotografia. Non c’è niente da fare, proprio non sono fotogenico. Spero che lei faccia il miracolo, magari se mi coglie di sorpresa, ma mi pare molto difficile. finora non è mai successo!”.
Mai uno che affermi spavaldo che in fotografia viene una meraviglia. La “sindrome” è documentata praticamente fin dalla nascita della fotografia.” il difficile sta nel rendere il sorriso” registrava Flaubert alla voce del dagherrotipo del suo dictionnaire des idées recues.
Fotogenici, naturalmente, sono sempre gli altri.
Il ritratto, che fin dai suoi inizi ha avuto un successo strabiliante, risponde a un’esigenza umana che ben precede l’avvento della fotografia stessa. Esigenza che ha a che fare, attraverso la rappresentazione del nostro corpo e del nostro volto, con la nostra identità: che è, come dire, con la nostra coscienza.
Noi parliamo di immagine, e oggi sappiamo di che cosa parliamo. Ma non è stato così immediato per i nostri antenati riuscire a capire che oltre agli oggetti del mondo che ci circondano, animati e inanimati, altri ce ne possono essere: misteriosi, fantasmi del mondo che ci ingannano con la loro falsa realtà, illusioni di realtà: le immagini.
Ancora più difficile deve esser stato comprendere questa falsa verità, questa relazione menzognera tra le cose del mondo e le loro immagini. Si è trattato di una lunghissima e complessa elaborazione della nostra coscienza, sfociata in una vera e propria scoperta, così determinante da aver prodotto un mito: il mito di Narciso, che non riconosce se stesso ma vede un altro. Narciso annega in quell’acqua che non sa essere specchio e muore. Dopo un po’ il bambino scopre una propria immagine nello specchio. E la sua relazione è assolutamente identica a quella del Narciso del mito. La prima cosa che il bambino vuole fare con questo altro da sé che vede nello specchio è giocare. Tenta di raggiungere fisicamente l’altro bambino, poi deluso, torna indietro, fa finta di niente, e lo ignora. O meglio, finge di ignorarlo.
Nella nostra mente si producono difficili trasformazioni della coscienza che ci consentono di elaborare il concetto stesso di immagine.
Il cucciolo d’uomo attraverso lo specchio scopre che non solo gli altri vedono lui dall’esterno, ma che esiste anche un marchingegno che gli consente di vedersi dall’esterno, giungendo alla conclusione che anche quelli che lo guardano lo vedono come immagine. Insomma, che gli altri e noi stessi abbiamo “un dentro” (la coscienza), con cui sperimentiamo e apprendiamo non solo la visibilità ma l’esistenza stessa del mondo. Scoperta che potremmo definire l’atto di nascita della coscienza umana. Usando il corpo possiamo costruire l’immagine di noi  stessi che offriamo al mondo, e attraverso lo specchio possiamo modificare la nostra immagine per cercare di offrire agli altri quella che preferiamo, quella che vorremmo che gli altri vedessero come la verità di noi stessi, la nostra stessa identità.
Quest’immagine di noi stessi, concreta e immaginaria, continuiamo a costruirla ininterrottamente per tutta la vita.
Nessuno sa mentire meglio di chi si guarda. I processi cerebrali che hanno a che fare con le immagini sono determinanti per lo sviluppo della coscienza e dell’identità stessa. Insomma, siamo uomini anche perché produciamo immagini, e produciamo e consumiamo immagini perché siamo uomini, per costruirci come individui dotati di coscienza.
Arianna Oggioni
Cecilia Ripesi